Ci divertivamo con poco da piccoli, un tavolo, delle sedie, delle pentole rotte e si giocava a "mamma e figli", un must dei giochi.
Mia sorella era la mamma, io il papà e mio fratello il figlio, la mattina facevamo colazione con acqua mescolata a terra, poi accompagnavo mio figlio a scuola e andavo al lavoro. Lavoravo come tassista, con la bici giravo intorno casa, caricavo il cliente, che poi era sempre mio fratello, e lo portavo a destinazione. All'ora di pranzo si tornava a casa e mangiavamo quello che mia sorella aveva raccattato in giro, a seconda della stagione c'erano fiori, ciliegie, albicocche, noci, uva. E così ci rovinavamo l'appetito.
Bastava aprire le portiere della 128 per farla diventare un'astronave, sul sedile posteriore saliva anche il cane, un pastore tedesco con mezzo metro di lingua penzolante. Nella nostra astroauto il bottone sul freno a mano lanciava missili, l'accendisigari era il megapropulsore e il tasto delle quattrofrecce lanciava l'SOS, perché c'era sempre un'avaria. Quindi mi arrampicavo sul tetto, scivolavo sul cofano e riparavo il danno. Al rientro però perdevo i contatti e vagavo sola nello spazio, finché non arrivava mia sorella con la 126 a salvarmi.
La regina dei giochi era l'altalena, fatta con la corda legata al ramo dell'albero, corda che ti segava il culo anche se ci mettevi sopra strati e strati di pezzi di stoffa. Si faceva a gara a chi andava più in alto, quando andavi troppo forte gli zoccoletti si sfilavano e dopo dovevi cercarli a piedi nudi tra l'erba. Memorabile fu il giorno della rottura della corda e il volo di mio cugino verso il nulla. Ridemmo, di gusto anche.
Ridevamo, sempre, il riso era un anestetico alle nostre cadute. Ginocchia sbucciate, gomiti frantumati e mani escoriate non facevano poi tanto male se ne ridevamo tutti insieme, un po' d'acqua, un fazzoletto sopra e si ripartiva. Credo di detenere il record di 4 fazzoletti.
Se l'altalena era la regina, il pallone era il re. A casa mia c'erano rose ovunque, con spine grandi 5 cm, ogni giorno assistevamo alla morte del SuperSantos e ogni giorno resuscitava, grazie all'intervento dell'Attack, di un coltello infuocato o di qualch'altra diavoleria. Il pallone finiva ovunque, nel giardino dei vicini, sugli alberi, sul tetto del forno, nel confinante terreno abbandonato e andare a riprenderlo in quest'ultimo posto significava affrontare una prova di coraggio.
E poi c'era la trasgressione, il Motobim. Era proibito prendere questa sorta di motorino, allora aspettavamo di essere soli in casa, scendevamo nel garage, aprivamo l'aria, mano sull'acceleratore e con potenti colpi di gamba sulla leva tentavamo di accenderlo, impresa che molte volte falliva miseramente. Ma quando partiva era la gioia, mio fratello si attaccava forte forte a me e giravamo in tondo, due scemi felici. Questa disobbedienza mi costò un'ustione vicino alla marmitta, confessai dopo due giorni cosa era accaduto veramente. Non dissero niente.
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